
Il ragazzo avrebbe ferito, da ammanettato, tre carabinieri. Dopo la condanna in primo grado, la sua famiglia, ha deciso di ricorrere in Appello.
COSENZA – Non si è definitivamente ancora conclusa la vicenda del presunto pestaggio avvenuto nell’agosto 2013 nella caserma di Rogliano. La famiglia del ragazzo condannato a cinque mesi di reclusione per aver ferito, da ammanettato, tre militari ha deciso di ricorrere in Appello. Non ha infatti soddisfatto i legali della difesa dell’imputato la decisione del giudice Lucia Marletta, che nonostante la richiesta di assoluzione invocata dal pm, ha inteso ritenere il giovane non vittima, ma bensì autore di lesioni personali, minacce e violenza ai danni di tre pubblici ufficiali: Antonino Barbieri, Giovanni Raimondo e Massimiliano De Seta. La testimonianza del ragazzo, all’epoca dei fatti ventitreenne è stata ritenuta inattendibile. Di seguito ne proponiamo alcuni stralci, ricordando che Marco Arcamone è stato giudicato dal Tribunale di Cosenza responsabile di aver aggredito fisicamente e verbalmente i militari e che le dichiarazioni restano, come recita la sentenza: “mere affermazioni dell’imputato quelle di essere stato picchiato anche all’interno della caserma”.
L’imputato già in sede di interrogatorio riferiva i fatti diversamente da quanto reso dai carabinieri della caserma di Rogliano. “Mentre giungeva dinanzi al bar – si legge nella sentenza – aveva notato un gruppetto di ragazzi che discutevano, ma che non si era verificata alcuna lite. Riferiva poi che quando i carabinieri erano giunti al bar in piazza a Rogliano uno dei carabinieri, Barberi, gli si era avvicinato ed egli aveva salutato ed aveva chiesto se fosse successo qualcosa. Alchè il Barberi gli aveva chiesto chi fosse ed esibirgli i documenti. Egli aveva spiegato di non avere con sè i documenti in quanto la patente gli era stata ritirata e l’avevano loro in caserma (e spiegava altresì l’imputato in udienza di avere perso la carta d’identità). Forse tale risposta li aveva urtati e così un altro carabiniere l’aveva aggredito da dietro girandogli il braccio e lo aveva sbattuto in macchina per portarlo in caserma. Durante il tragitto il De Seta, che si trovava seduto insieme a lui sul sedile posteriore, aveva iniziato a colpirlo allo stomaco e con pugni alla testa. Egli aveva cercato di bloccarlo per non farsi male e negava di avere a sua volta colpito il De Seta. All’arrivo in caserma egli avrebbe voluto scendere da solo dall’auto, ma nonostante avesse detto che sarebbe sceso da solo, i carabinieri non gliene avevano dato il tempo e lo avevano tirato con forza fuori dall’abitacolo.
Era caduto a terra ed i quattro militari, escluso il carabiniere donna, la quale era già entrata avevano preso a colpirlo con calci e pugni. Lo avevano poi portato all’interno della caserma dove avevano proseguito a colpirlo. Cercando di proteggersi, era caduto nuovamente a terra. Era poi giunto il carabinere donna che aveva redarguito i colleghi chiedendo loro cosa stessero facendo e se fossero pazzi. Quindi i carabinieri si erano fermati e gli avevano messo le manette, legandogli le mani da dietro. Una volta seduto il ragazzo era riuscito a sfilare il telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni ed aveva chiamato la madre e, quando aveva compreso che era giunta la mamma in caserma era uscito per raggiungerla seguito da uno dai carabinieri che lo avevano picchiato. Aveva visto che all’esterno vi erano la madre, lo zio e tutti i suoi amici. Aveva detto alla madre che il carabiniere che lo seguiva era uno di quelli che lo stava massacrando di botte. Il carabiniere quindi lo aveva riportato all’interno e gli aveva dato un’altra ‘scarica’ e lo aveva messo in cella di sicurezza tenendolo sempre ammanettato. Era stata quindi chiamata l’ambulanza ed al medico che lo stava visitando aveva detto che gli faceva male la pancia e che non stava bene. Il medico si era limitato a guardarlo e a dire che andava tutto bene, nonostante fossero visibili le escoriazioni alle ginocchia, dato che indossava i bermuda.
L’imputato precisava inoltre che in quel momento non poteva alzare la maglia per fargli vedere i graffi ai fianchi poiché era ammanettato. Poiché continuava a stare male la madre aveva chiamato il 118 e la dottoressa lo aveva indirizzato all’ospedale. Recatosi al Pronto Soccorso di Cosenza gli avevano fatto una radiografia al posto e gli avevano refertato una distorsione oltre a trauma cranico minore con distorsione del rachide cervicale per la quale si consigliava il collare ortopedico per dieci giorni, contusioni ed escoriazioni multiple con prognosi di dieci giorni. Marco Arcamone negava di aver appellato i carabinieri al loro arrivo chiamandoli ‘sbirri di merda’. Spiegava infatti di avere uno zio carabiniere e che anche il nonno era carabiniere. Negava inoltre di avere intavolato una discussione con i carabinieri che gli chiedevano i documenti e dichiarava di aver risposto loro solamente che i documenti li avevano in caserma. Negava inoltre di aver colpito il Raimondo, e per spiegare le lesioni refertate ai militari, affermava che forse a causa dei tanti pugni che i carabinieri gli avevano sferrato per sbaglio si erano colpiti anche tra loro. Negava inoltre di aver colpito con un calcio il De Seta”.
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